CENNI BIOGRAFICI
di Giovanni Rispoli
Il lavoro senza diritti Di Vittorio lo scopre
sulla sua pelle quando, a soli sette anni – è nato a Cerignola, in
Puglia, l’11 agosto 1892 –, a causa della morte del padre – Michele,
la madre si chiama Rosa Errico – è costretto ad abbandonare la scuola
per la “fatica” nelle campagne arse del Tavoliere.
Sindacalista rivoluzionario
La lega bracciantile di Cerignola ne sperimenta subito la
straordinaria capacità comunicativa. Nella “Puglia rossa” l’asprezza
dei conflitti spinge il movimento verso il sindacalismo
rivoluzionario. È in questa direzione che Di Vittorio pilota il
circolo giovanile socialista, fondato nel 1909. La sua militanza nelle
file del sindacalismo, tuttavia, non ha mai il carattere della
rottura. Nel 1912 la Cgdl subisce la scissione dell’Usi. Di Vittorio,
che nel ’13 diventa segretario della Camera del lavoro di Minervino
Murge, pur aderendo alla nuova organizzazione, fa sempre prevalere la
linea dell’unità. Nel 1914, ricercato dopo la “settimana rossa”,
ripara a Lugano – il suo “liceo”, dirà in seguito, perché qui riesce
finalmente a dedicarsi allo studio –. L’esplosione del primo
conflitto mondiale lo vede schierato con l’interventismo democratico.
Arruolato nei bersaglieri, ferito, a causa delle sue convinzioni e
dopo vari spostamenti, viene relegato a Porto Bardia, estremo confine
orientale della Libia.
Contro il fascismo
Rientrato in Italia nell’agosto ’19, il 31 dicembre sposa Carolina
Morra. Il 16 ottobre del 1920 nasce la prima figlia, Baldina. Siamo in
pieno “biennio rosso”. Sullo sfondo il mito della rivoluzione
sovietica del ’17, l’Italia è attraversata da un’ondata di conflitti
senza precedenti. Ma la spinta che viene dal basso non trova nessuno
sbocco politico. Il fascismo esce dal guscio: a partire dai primi mesi
del 1921 la sua offensiva, che in Puglia presenta il volto feroce
dello squadrismo agrario, diviene incalzante e in meno di due anni –
con la marcia su Roma, il 28 ottobre 1922 – Mussolini è al potere.
Nell’aprile ’21 Di Vittorio, ormai popolarissimo,
è arrestato e rinchiuso nel carcere di Lucera, che ha già conosciuto
nel 1911. La candidatura offertagli dal Psi è l’occasione per tornare
libero, le elezioni del 15 maggio lo portano in parlamento. Nei mesi
successivi è alla guida della Camera del lavoro sindacalista di Bari.
La situazione va precipitando. Il 1° agosto 1922
l’Alleanza del lavoro promuove uno sciopero in difesa della legalità –
lo “sciopero legalitario”, appunto –. Poche le realtà in cui ha
successo. Tra queste il capoluogo pugliese, dove Di Vittorio mobilita
un ampio schieramento di forze che darà scacco agli squadristi per
mesi, impedendo loro di prendere la Camera del lavoro e Bari vecchia.
Il 21 ottobre, nel pieno dello scontro con i fascisti, nasce il
secondo figlio, Vindice.
Si allontana dal sindacalismo rivoluzionario. Dopo
una breve esperienza nel Psi, nel 1924 entra nel partito comunista.
Il fascismo si consolida e, superata la breve
crisi che segue il delitto Matteotti, nell’estate del 1924, si avvia
verso la trasformazione in regime. Nel giro di un anno, tra il
settembre ’25 e il settembre ’26, Di Vittorio viene rinchiuso tre
volte nel carcere romano di Regina Coeli; poi, in dicembre, dopo le
leggi eccezionali che dànno corpo alla dittatura di Mussolini,
comincia l’esilio in Francia. Il Tribunale speciale lo ha condannato
in contumacia a dodici anni. La famiglia lo raggiunge poco dopo.
Nell’emigrazione
Arrivato a Parigi è incaricato del lavoro politico tra gli
emigrati italiani. Espulso nell’agosto del ’27, ripara prima in Belgio
e poi a Mosca. Qui lavora al Krestintern, l’Internazionale contadina.
Rientrato in Fancia nel ’30, “Nicoletti” – questo il suo nome
nell’esilio – è incaricato di dirigere la Cgl clandestina creata nel
1927 a Milano dai comunisti. L’anno successivo, con il IV Congresso
del Pcd’I, a Colonia, entra nel gruppo dirigente del partito. Nel
periodo dell’emigrazione la breve stagione dei Fronti popolari è
sicuramente la più felice. Il 12 marzo 1935, questa appena agli inizi,
è colpito però da un evento assai doloroso: la morte della moglie,
minata nella salute dalle fatiche degli anni precedenti.
La Spagna
Commissario politico della XI Brigata internazionale, è in Spagna
già nelle prime settimane della guerra civile (1936-1939). Nel
febbraio ’37 deve ritornare in Francia. Ma tra i combattenti
repubblicani la sua straordinaria umanità lo ha reso uno dei capi più
amati. In ottobre assume a Parigi la direzione del quotidiano La Voce
degli italiani. Qui incontra Anita Contini, sua seconda moglie.
Annus horribilis
Pessimo anno, il 1939. Con la caduta di Madrid, alla fine di
marzo, Franco diviene padrone della Spagna. L’estate successiva, il 23
agosto, il patto di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania –
il patto Molotov-Von Ribbentrop, una settimana prima dell’invasione
tedesca della Polonia e dell’inizio della seconda guerra mondiale –
getta lo scompiglio nelle file dell’antifascismo. Di Vittorio
dissente, è escluso dal vertice del Pci.
I tedeschi occupano mezza Europa. Nel giugno 1940 entrano a Parigi
mentre a sud – a Vichy – viene insediato un governo collaborazionista.
Di Vittorio ritorna nella clandestinità. La figlia Baldina è rinchiusa
con altre militanti antifasciste nel campo femminile di Rieucros;
Vindice entrerà nel Maquis, la resistenza francese, e sarà ferito
gravemente nel ’44.
Il 10 febbraio ’41 è catturato dalla Gestapo. In
luglio, tradotto in Italia, viene confinato a Ventotene, dove gli è
concesso di coltivare un piccolo pezzo di terra.
Il Patto di Roma
Dopo il 25 luglio del ’43 e la caduta del fascismo è nominato
vicecommissario della confederazione dei lavoratori agricoli. Non
ancora riammesso ai vertici del Pci, affianca il responsabile del
lavoro sindacale Giovanni Roveda. L’8 settembre e la spaccatura del
paese in due – il sud occupato dagli Alleati, il centro e il nord dai
tedeschi – dànno una svolta imprevista agli eventi. Con l’arresto di
Roveda, in dicembre, è a lui che tocca la trattativa per la
costruzione di un nuovo sindacato unitario avviata con il socialista
Bruno Buozzi e i democristiani Achille Grandi e Giovanni Gronchi. I
punti basilari dell’accordo definitivo, siglato il 4 giugno, vedono
prevalere le sue idee: sindacato né unico né obbligatorio ma unitario,
indipendente dallo Stato, dai padroni, dai partiti.
“Fondata sul lavoro”
Finita la guerra, la politica di moderazione e perequazione
salariale seguita dalla Cgil diviene uno dei fattori decisivi della
ricostruzione. Di grande significato, negli stessi anni, il suo
apporto alla stesura della carta costituzionale. Il peso che il
sociale e il lavoro hanno nel testo – “L’Italia è una repubblica
democratica, fondata sul lavoro”, reciterà com’è noto l’articolo 1 – è
merito, fra gli altri, del leader pugliese, relatore alla Costituente
sui temi sindacali.
La scissione
Con la morte prematura di Grandi – il suo posto verrà preso prima
da Giuseppe Rapelli, poi da Giulio Pastore – la cacciata delle
sinistre dal governo, nel maggio ’47, infine la sconfitta del Fronte
popolare nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948, le divisioni già
emerse nel sindacato si fanno insanabili. I nodi vengono al pettine il
14 luglio del ’48: dopo l’attentato a Togliatti e la decisione della
Cgil di proclamare lo sciopero generale, i democristiani escono dalla
confederazione. Un anno dopo se ne andranno anche repubblicani e
socialdemocratici.
Il Piano del lavoro
Di Vittorio fa l’impossibile per lenire la ferita della scissione.
Ma il clima è cambiato. La Cgil rischia l’isolamento, comincia l’epoca
delle discriminazioni e dei licenziamenti “per rappresaglia”, le forze
dell’ordine intervengono spesso in modo sanguinoso in occasione di
scioperi e manifestazioni. In questo quadro Di Vittorio avanza una
proposta che permette alla Cgil di parlare all’intero paese. È il
Piano del lavoro, lanciato al II Congresso di Genova nell’ottobre ’49,
illustrato in dettaglio nella conferenza di Roma del febbraio ’50: un
insieme di idee concrete – non un espediente per “forzare una
situazione di chiusura”, ricorderà Riccardo Lombardi –, che consiste
essenzialmente in un progetto di grandi opere infrastrutturali, con
l’obiettivo di porre le basi di un nuovo ciclo espansivo, quindi di
una crescita dell’occupazione e dei consumi. L’analisi del capitalismo
italiano che lo sottende non vede i cambiamenti in atto: il paese sta
già imboccando la strada che lo porterà al boom economico di fine
decennio. L’espansione, dunque, ci sarà ugualmente. Ma il Piano ha il
merito di porre il problema di uno sviluppo che non lasci fuori i ceti
e i territori più deboli.
Dello stesso periodo è la proposta – III Congresso, Napoli,
novembre-dicembre 1952 –, di uno Statuto dei diritti dei lavoratori.
Proposta che troverà la sua realizzazione molto più avanti, nel 1970.
L’autocritica del ’55
Nel marzo 1955 gli operai della Fiat vanno alle urne per il
rinnovo della Commissione interna. La Fiom Cgil subisce una secca
sconfitta, la Cisl diviene il primo sindacato. Per anni Di Vittorio e
la Cgil hanno sostenuto una politica di rigorosa centralizzazione
contrattuale nella convinzione che la contrattazione aziendale
esponesse al rischio di divisioni e derive corporative. Una linea che
ha impedito al sindacato di elaborare una politica adeguata alle
trasformazioni che intanto hanno cambiato il volto dell’industria
nazionale. La sconfitta alla Fiat mette a nudo la debolezza di quest’impostazione
e Di Vittorio, nel direttivo Cgil del 27-28 aprile, dà il via al
processo autocritico, la cosiddetta “svolta”, appunto, “del ’55”: “(…)
ci siamo illusi di racchiudere la realtà entro i nostri schemi ma la
realtà è stata più forte di noi e il nostro schema è saltato in aria”.
Il V Congresso, nel ’60, consacrerà poi in maniera definitiva la
politica della contrattazione articolata.
Ma intanto si avvicina un’altra durissima prova.
L’Ungheria
Alla fine del giugno ’56 a Poznan, in Polonia, la polizia reprime
sanguinosamente le proteste innescate da uno sciopero operaio. In una
dichiarazione a Rassegna Sindacale il leader della Cgil – che dal 1953
è anche presidente della Federazione sindacale mondiale, la Fsm –
parla di “malcontento diffuso e profondo nella massa degli operai” e
aggiunge che “anche nei paesi socialisti” i sindacati “hanno il
compito di difendere energicamente le giuste rivendicazioni dei
lavoratori”. Quattro mesi dopo la questione ritorna in maniera ancor
più drammatica. Il 23 ottobre tutta Budapest scende in piazza per le
riforme e la democratizzazione degli istituti di governo; l’indomani,
con l’arrivo dei carri armati sovietici, scoppia la rivolta.
Il 27 ottobre la corrente socialista della Cgil prepara un documento
sull’invasione, Di Vittorio lo approva, la confederazione emette un
comunicato di condanna dei metodi antidemocratici di governo e
sindacati ungheresi e di deplorazione dell’intervento sovietico.
Il Pci è fortemente preoccupato. Si è sparsa la voce che Di Vittorio
voglia candidarsi a sostituire Togliatti. Il leader della Cgil la
definisce assurda, ma la lettera di dissenso di un nutrito gruppo di
intellettuali comunisti (la lettera dei “centouno”) fa esplicito
riferimento al comunicato di Corso d’Italia. Il capo della Cgil, messo
sotto accusa, esce assai scosso da una riunione della direzione
comunista, il 30, e in un comizio a Livorno, il 4 novembre, in
coincidenza con il secondo e risolutivo intervento sovietico, fa un
passo indietro.
L’ottavo congresso del Pci
La sua battaglia per l’indipendenza del sindacato, tuttavia, non
si esaurisce e ottiene un primo, importante riconoscimento nel corso
dell’VIII Congresso del Pci, in dicembre, con l’abbandono della teoria
del sindacato come “cinghia di trasmissione” del partito. Durante il
congresso ritorna anche sui fatti ungheresi per ribadire,
coraggiosamente, le sue convinzioni. Uguale coraggio, e capacità di
vedere lontano, Di Vittorio mostrerà successivamente sul tema
dell’integrazione europea – più duttile del suo partito si era già
rivelato nei giudizi sul Piano Marshall, la Cassa per il Mezzogiorno,
lo schema Vanoni –. Il processo avviato nel 1957 con i Trattati di
Roma viene visto, pur con tanti limiti, come un’opportunità di
avanzamento per i lavoratori.
L’epilogo
Il 3 novembre 1957 è a Lecco per un incontro con i quadri della
Cgil. Nonostante le incerte condizioni di salute – nel dicembre del
1955 è stato colpito da infarto – e lo stress terribile dei mesi
precedenti, non ha saputo dire di no. In albergo viene colto da un
malore, nulla può l’intervento dei medici.
I funerali saranno quelli di un grande eroe popolare. Dichiarazioni
sincere, non rituali, verranno anche dai suoi avversari. Passerà molto
tempo, però, perché si comprenda che l’ex bracciante di Cerignola è
stato anche un politico di grande spessore. Capace, il mondo
rigidamente diviso in blocchi contrapposti, di andare oltre il suo
tempo. |